La prelazione del conduttore e la liquidazione concorsuale: la Cassazione n. 28918/2025 chiarisce l’incompatibilità strutturale tra tutela individuale e procedura concorsuale

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Con la sentenza n. 28918 del 15 ottobre 2025, la Prima Sezione civile della Corte di Cassazione ha ribadito un principio ormai consolidato nel diritto della crisi d’impresa: il diritto di prelazione del conduttore di immobile ad uso commerciale, previsto dall’art. 38 della legge n. 392 del 1978, non trova applicazione nelle vendite fallimentari.

La vicenda nasce dal reclamo di una fondazione che, conduttrice di un immobile poi acquisito dalla curatela fallimentare, rivendicava il diritto di prelazione sulla vendita dell’immobile. Il Tribunale di Roma, richiamando gli artt. 36 e 38 L. 392/1978, aveva escluso la possibilità di esercizio della prelazione in sede concorsuale, ritenendo incompatibile il diritto con la natura coattiva della vendita fallimentare. La fondazione ricorreva in Cassazione invocando la violazione di norme sostanziali e processuali, nonché un’errata interpretazione dell’art. 107 della legge fallimentare.

La Corte di cassazione, con la sentenza 15 ottobre 2025 n. 28918, affronta con estrema chiarezza e rigore sistematico il tema, da tempo dibattuto, della compatibilità del diritto di prelazione del conduttore di immobile ad uso commerciale, previsto dall’art. 38 della legge 27 luglio 1978 n. 392, con la vendita concorsuale disciplinata dall’art. 107 della legge fallimentare.

L’interrogativo è se un diritto di fonte civilistica, nato per tutelare l’avviamento commerciale del conduttore nell’ambito di un ordinario rapporto locatizio, possa estendersi sino a incidere su una procedura esecutiva collettiva, caratterizzata da una logica pubblicistica e competitiva.

La Corte muove dalla constatazione che la prelazione del conduttore, quale costruzione di diritto privato, trova la propria giustificazione nella libera iniziativa negoziale del locatore che decida di alienare l’immobile, consentendo al conduttore di subentrare nel contratto alle stesse condizioni offerte dal terzo acquirente, in funzione di tutela dell’avviamento e di stabilità del rapporto commerciale.

Ma nel momento in cui l’alienazione del bene interviene in un contesto di fallimento, l’operazione perde ogni connotato di volontarietà: il venditore non è più un soggetto che esercita autonomia privata, ma un organo della procedura che agisce nell’interesse collettivo dei creditori e sotto il controllo del giudice delegato.

La vendita fallimentare, osserva la Cassazione, è atto esecutivo del processo concorsuale e, come tale, è retta dal principio della massimizzazione dell’attivo, che trova il suo fondamento nell’art. 2741 c.c. e nella disciplina dell’art. 107 L. fall.

Essa è vendita coattiva, soggetta a pubblicità e a procedure competitive, che hanno lo scopo di selezionare il miglior offerente e conseguire il prezzo più alto possibile a beneficio della massa.

In questo scenario, la prelazione si rivela non solo estranea, ma strutturalmente incompatibile. Ammettere che il conduttore possa esercitare la prelazione a parità di condizioni significherebbe introdurre una preferenza soggettiva in un sistema che per sua natura è improntato all’eguaglianza dei creditori e alla neutralità delle regole di gara.

L’argomento, che pure viene talvolta evocato nella prassi, secondo cui la prelazione non nuocerebbe poiché esercitata “a parità di prezzo”, viene respinto con decisione: la Corte sottolinea come la semplice possibilità che un concorrente privilegiato possa intervenire ex post, sostituendosi al miglior offerente, abbia un effetto disincentivante sulla partecipazione degli operatori, con la conseguenza di ridurre la competitività della procedura e, in ultima analisi, il valore di aggiudicazione.

La prelazione, infatti, non è neutra sul piano economico: il potenziale acquirente non investirà tempo e risorse per elaborare un’offerta se sa che un altro soggetto, titolare di un diritto di preferenza, può in ogni momento subentrargli alle stesse condizioni.

L’effetto finale è la compressione della concorrenza e la diminuzione del prezzo, che si traduce in un pregiudizio diretto per la massa dei creditori.

Il ragionamento, di limpida logica sistematica, conduce la Corte ad affermare che la prelazione del conduttore, per la sua stessa natura privatistica e volontaria, non può convivere con la struttura pubblicistica e coattiva della vendita concorsuale.

Il fallimento, o oggi la liquidazione giudiziale, è una procedura destinata a realizzare la par condicio creditorum attraverso regole tipizzate e strumenti trasparenti di liquidazione: in tale contesto, qualsiasi interferenza di diritti soggettivi estranei al sistema, che pretendano di prevalere sulle modalità di vendita o di alterare la graduazione dei crediti, risulta inammissibile.

La Corte colloca la decisione nel solco di un orientamento giurisprudenziale consolidato, richiamando espressamente le pronunce Cass. 27 luglio 2004 n. 14083, Cass. 25 luglio 2013 n. 11086 e Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2020 n. 32428, che già avevano chiarito l’impossibilità di estendere alla vendita forzata il diritto di prelazione previsto per le alienazioni volontarie.

Tutte queste decisioni, osserva la sentenza, convergono sul principio secondo cui la prelazione del conduttore, come quella dell’art. 732 c.c. tra coeredi, è incompatibile con la vendita giudiziale, poiché presuppone un’iniziativa dispositiva del proprietario che non esiste nel procedimento coattivo.

Il giudice di legittimità sottolinea inoltre che, se pure la curatela stipuli un nuovo contratto di locazione dopo la dichiarazione di fallimento, con l’autorizzazione del comitato dei creditori e del giudice delegato, tale atto resta funzionale alla gestione dell’attivo e non può generare un diritto di prelazione opponibile alla procedura.

L’eventuale prosecuzione del rapporto locatizio risponde a finalità di conservazione del bene e di continuità gestionale, ma non attribuisce al conduttore un titolo preferenziale per l’acquisto: anche in tal caso, il curatore deve vendere il bene con procedure competitive, e il conduttore, se interessato, può partecipare alla gara alle stesse condizioni degli altri offerenti.

La prelazione, insomma, non si trasforma in un privilegio processuale. La Corte mostra di considerare non solo la lettera delle norme, ma la loro ratio complessiva: l’art. 107 L. fall. e, nel nuovo quadro, gli artt. 201 e 216 del Codice della crisi, delineano un sistema in cui la regola di vendita è la pubblicità, la trasparenza e la competizione.

Ogni deroga che introduca preferenze non tipizzate compromette il principio del miglior realizzo, che rappresenta oggi il cardine di tutte le procedure di liquidazione.

L’art. 38 L. 392/1978, invece, tutela un interesse meramente individuale, quello del conduttore alla continuità della propria attività, e non può essere esteso oltre il contesto contrattuale per cui è stato concepito.

La sentenza spiega con chiarezza che non si tratta di negare la meritevolezza di quell’interesse, ma di collocarlo nel giusto piano: la prelazione civile opera nell’ambito della libertà negoziale, la liquidazione concorsuale nell’ambito dell’esecuzione collettiva. Due logiche diverse, che non possono sovrapporsi.

La Corte esclude altresì la possibilità di un’interpretazione estensiva o analogica della prelazione, sottolineando che il sistema delle procedure concorsuali è di carattere chiuso e non ammette innesti da norme di diritto comune se non espressamente richiamate.

Non può dunque invocarsi, neppure per via equitativa, la buona fede contrattuale di cui all’art. 1375 c.c., che cede di fronte a un assetto speciale e inderogabile.

L’incompatibilità, scrive la Cassazione, è tanto funzionale quanto strutturale: funzionale perché la prelazione contraddice la regola della gara; strutturale perché la prelazione presuppone libertà negoziale mentre la vendita concorsuale è atto imposto dalla legge.

Nel completare il percorso argomentativo, la Corte ribadisce che la tutela dell’avviamento non viene annientata, ma traslata sul piano della gestione procedurale: la curatela può, se conveniente, mantenere la locazione o stipulare nuovi contratti, ma il momento della liquidazione resta rigidamente disciplinato dalle regole di concorrenza.

La sentenza si chiude con la formulazione del principio di diritto secondo cui: “In materia di vendita competitiva svolta ai sensi dell’art. 107 1. fall., la stipula da parte del curatore, a ciò autorizzato dal comitato dei creditori, ex art. 560, 2 comma, c.p.c. e 107, 2 comma, I. fall., di un contratto di locazione non determina di per sé la spettanza in favore del conduttore altresì della prelazione legale ex art. 38 1. n. 392/78, dovendo essa, per risultare compatibile con le finalità liquidatorie della procedura, fondarsi su una previsione espressa, in favore del conduttore stesso, di una clausola di prelazione convenzionale; la natura straordinaria di tale atto necessita, secondo lo schema già delineato per il contratto di affitto d’azienda dall’art. 104 bis, 5 comma, I. fall., della previa autorizzazione degli organi della procedura, in coerenza con una norma che esprime un principio generale, in ordine alla gestione dei beni suscettibili di vendita coattiva, immanente a tale fase strumentale della più ampia liquidazione concorsuale”.

 

CASS. CIV. PRIMA SEZIONE – SENTENZA N. 28918 DEL 15 OTTOBRE 2025

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