La prova del mancato rispetto da parte della Banca dei doveri informativi nei confronti dell’investitore, come per esempio la mancata acquisizione del profilo di rischio o l’assenza del prospetto informativo dell’investimento, è sufficiente a radicare la responsabilità dell’intermediario. La normativa relativa al settore dei servizi di investimento delineata dagli artt. 21 e 23 del d.lgs. n. 58 del 1998 (TUF) e dal reg. Consob n. 11522 del 1998 pone un’incisiva serie di doveri informativi in carico agli intermediari, funzionale a far acquisire al cliente l’effettiva consapevolezza dell’investimento. L’obbligo informativo assume rilievo determinante, essendo diretto ad assicurare scelte di investimento realmente consapevoli, in modo che, in assenza di un consenso informato dell’interessato: “il sinallagma del singolo negozio di investimento manchi di trovare piena attuazione” (cfr., tra le altre, Cass., 31 agosto 2017, n. 4727). Pertanto, la mancata prestazione delle informazioni dovute ai clienti da parte della banca intermediaria ingenera una presunzione di riconducibilità alla stessa dell’operazione finanziaria, dal momento che l’inosservanza dei doveri informativi da parte dell’intermediario, costituisce di per sé un fattore di disorientamento dell’investitore che condiziona in modo scorretto le sue scelte di investimento (anziché orientarlo verso scelte di investimento che siano consapevoli e ragionevoli). Tale condotta omissiva, pertanto, è normalmente idonea a cagionare il pregiudizio dall’investitore, il che, tuttavia non esclude la possibilità di una prova contraria da parte dell’intermediario circa la sussistenza di sopravvenienze che risultino atte a deviare il corso della catena causale derivante dall’asimmetria informativa. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 24142 del 3 ottobre 2018, respingendo il ricorso di un istituto di credito nei confronti di una coppia di risparmiatori a cui erano stati venduti tra il 2000 ed il 2001 dei titoli di investimento. J.A.

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