Con la sentenza n. 10280/2018, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la piena legittimità ai sensi dell’art. 2119 c.c. di un licenziamento adottato dal datore di lavoro nei confronti di una dipendente che su Facebook aveva usato frasi lesive del buon nome dell’’azienda, specificando che: “al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento non è necessario che l’elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso“.

La lavoratrice aveva giustificato la propria condotta sostenendo, tra l’’altro, che si fosse trattato di un semplice sfogo in un contesto, quale quello di Facebook, in cui è usuale l’’utilizzo di un linguaggio più disinibito.

A riprova di ciò rilevava di aver continuato regolarmente e diligentemente a prestare la propria attività lavorativa nel rispetto dei propri superiori gerarchici.

Inoltre, la dipendente evidenziava l’’assenza, all’’interno del messaggio, dell’’indicazione di nominativi riconducibili a specifici soggetti all’’interno dell’’azienda.

La Suprema Corte ha argomentato la sua posizione sottolineando che il social network è uno strumento potenzialmente idoneo a raggiungere una platea indeterminata di soggetti e, quindi, il postare affermazioni denigratorie sui “social” integra un: “comportamento idoneo ad incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario coessenziale al rapporto di lavoro e deducibile quindi a giusta causa di licenziamento“, al contrario, non dovendosi ritenere rilevante la mancata specificazione del nominativo del rappresentante dell’azienda, ove lo stesso sia facilmente individuabile.

Gli Ermellini hanno precisato, difatti, che la diffusione di un messaggio di disprezzo attraverso Facebook integra un’ipotesi di diffamazione ai sensi dell’art. 595 c.p. e, nel caso di specie, trattandosi di un messaggio offensivo e diffamatorio nei riguardi di soggetti facilmente individuabili, il comportamento tenuto dalla lavoratrice è stato correttamente valutato in termini di giusta causa di recesso da parte del datore di lavoro.

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