La Corte costituzionale, con la sentenza numero 102 depositata lo scorso 8 luglio, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte d’appello di Venezia, sulla previsione del termine di ragionevole durata delle procedure concorsuali.
La Consulta ha osservato che il termine di durata, fissato in sei anni dall’articolo 2, comma 2-bis, della legge numero 89 del 2001, ed estensibile a sette anni nei casi di particolare complessità, per effetto del temperamento introdotto dalla Corte di cassazione, è in linea con lo standard indicato dalla costante giurisprudenza della Corte EDU.
La disposizione sottoposta a scrutinio risulta, pertanto, rispettosa del principio della ragionevole durata, sancito dall’articolo 6 della CEDU quale carattere indefettibile del “giusto processo”. La scelta del legislatore di predeterminare la durata ragionevole non dà luogo ad automatismo, rimanendo in capo al giudice dell’equa riparazione, nelle procedure concorsuali, il potere/dovere di esaminare la fattispecie concreta sottoposta al suo giudizio, secondo quanto previsto in altre disposizioni della medesima legge numero 89 del 2001.
Con la sentenza n. 102 del 2025, la Corte costituzionale è intervenuta su un tema cruciale per il diritto concorsuale: quando una procedura fallimentare può dirsi “irragionevolmente lunga” ai fini dell’equa riparazione prevista dalla legge n. 89/2001, la cosiddetta legge Pinto.
Il provvedimento nasce da un caso concreto sottoposto alla Corte d’appello di Venezia, che si è trovata a dover decidere su alcuni ricorsi proposti da ex dipendenti di una società dichiarata fallita nel 2013. I ricorrenti, ammessi al passivo per crediti di lavoro e già parzialmente soddisfatti, lamentavano l’eccessiva durata della procedura, protrattasi per oltre undici anni, ben oltre i sei anni considerati dalla normativa come termine ragionevole.
La Corte d’appello veneziana, con ordinanza n. 218 del 2024, ha sollevato questione di legittimità costituzionale sull’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89/2001, introdotto dall’art. 55, comma 1, lett. a), n. 2), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134.
Il comma 2-bis stabilisce che le procedure concorsuali si considerano ragionevoli se concluse entro sei anni. Tale limite è stato pensato per uniformare i criteri di valutazione, sottraendo ai giudici una discrezionalità che, in passato, aveva prodotto applicazioni difformi.
Tuttavia, il giudice rimettente ha osservato come la procedura oggetto di causa fosse caratterizzata da un elevato grado di complessità. Non si trattava di un fallimento ordinario: erano state promosse 99 azioni revocatorie, effettuati interventi di bonifica ambientale, richiesto l’intervento della Protezione civile e affrontate una serie di procedimenti esecutivi, rendendo materialmente impossibile rispettare il termine di sei anni.
Secondo il giudice a quo, la previsione di un termine fisso per tutte le procedure, indipendentemente dalla loro complessità, violerebbe:
- l’art. 3 Cost., per irragionevolezza e disparità di trattamento;
- l’art. 24 Cost., perché priverebbe i creditori della possibilità di veder pienamente tutelati i propri diritti, disincentivando i curatori ad agire;
- l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, nella parte in cui garantisce il diritto alla ragionevole durata del processo in relazione alle concrete circostanze del caso.
Già prima dell’intervento normativo del 2012, la giurisprudenza nazionale, influenzata dagli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo, aveva individuato un parametro temporale per la durata ragionevole delle procedure concorsuali, oscillante tra cinque e sette anni, in relazione al grado di complessità.
La riforma del 2012 ha fissato in via legislativa il limite di sei anni, uniformando il criterio e riducendo la discrezionalità giudiziaria. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 36 del 2016, aveva già chiarito che il termine introdotto dal legislatore ha natura inderogabile come parametro di riferimento generale, sottratto alla valutazione caso per caso. Tuttavia, nel diritto vivente si è affermato un temperamento interpretativo: nei casi di notevole complessità, il termine può essere esteso fino a sette anni.
La Corte di cassazione ha ribadito più volte tale orientamento, precisando che la complessità va valutata sulla base di elementi oggettivi, come il numero di creditori, la natura dei beni da liquidare (ad esempio, partecipazioni societarie o beni indivisi), la presenza di procedimenti collaterali e la pluralità di procedure interdipendenti.
Il caso esaminato dalla Corte costituzionale ha messo in luce proprio questo aspetto. Il fallimento riguardava un’azienda del settore chimico, unico produttore nazionale di vinilcloruro, con stabilimenti altamente contaminati. La gestione della procedura ha richiesto interventi di bonifica e messa in sicurezza, attività che hanno coinvolto anche la Protezione civile, e l’avvio di numerosi giudizi recuperatori per ricostituire l’attivo fallimentare, alcuni dei quali ancora pendenti.
Il curatore, in mancanza di risorse adeguate, ha chiesto l’intervento pubblico per far fronte alle bonifiche, mentre la durata delle procedure giudiziarie si è inevitabilmente riflessa sui tempi complessivi del fallimento. La relazione del curatore del 19 giugno 2024 ha attestato l’impossibilità di prevedere una data certa per la chiusura della procedura.
La Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale.
- In particolare, ha chiarito che:
il termine di sei anni, previsto dal comma 2-bis, non opera come automatismo rigido; - la giurisprudenza nazionale ha già introdotto un temperamento per i casi complessi, ammettendo la tollerabilità di una durata fino a sette anni (Cass., ord. n. 22340/2023, n. 31274/2022);
- il superamento del termine non comporta di per sé il diritto all’indennizzo, essendo necessario valutare anche il comportamento delle parti e le caratteristiche della procedura;
- il principio di autoresponsabilità del creditore, sancito dall’art. 2, comma 2, legge n. 89/2001, può escludere o ridurre l’indennizzo quando i ritardi siano imputabili alla parte istante (Cass., ord. n. 28498/2020).
La Corte ha ribadito inoltre che le novità legislative introdotte dal Codice della crisi d’impresa (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) – in particolare l’art. 213, comma 9, come modificato dal d.lgs. 13 settembre 2024, n. 136 – non sono applicabili retroattivamente alle procedure regolate dalla legge fallimentare del 1942.
La sentenza n. 102/2025 pone un punto fermo importante: il sistema dell’equa riparazione per durata irragionevole non può trasformarsi in un meccanismo automatico di indennizzo ogniqualvolta una procedura superi il termine legale. Il giudice dell’equa riparazione è chiamato a compiere una valutazione concreta, considerando la complessità del caso, il comportamento delle parti e le peculiarità della procedura.
Allo stesso tempo, la decisione tutela gli organi della procedura, i quali non possono essere disincentivati a svolgere attività complesse e necessarie – come azioni recuperatorie o operazioni di bonifica – per timore di incorrere in responsabilità contabile o disciplinare per superamento dei termini. Come chiarito dalla Consulta, la responsabilità degli organi procedurali per i ritardi colpevoli è materia distinta, da far valere in altre sedi (Corte cost., sent. n. 249/2020), e non rientra nell’ambito dell’equa riparazione.
Per i creditori, la decisione significa che l’indennizzo non è scontato: occorre dimostrare che i ritardi siano effettivamente irragionevoli e non determinati da circostanze complesse o da proprie condotte.
Per i curatori e gli altri organi della procedura, la sentenza rappresenta un chiarimento essenziale: le azioni finalizzate al miglior soddisfacimento dei creditori – anche quando richiedono tempo e risorse – non devono essere sacrificate per rispettare un termine legale che, seppur fissato come parametro, ammette temperamenti in presenza di una giustificazione oggettiva.
Per gli operatori del diritto, la sentenza fornisce una bussola interpretativa importante, rafforzando il raccordo tra diritto interno e standard convenzionali europei: il sistema deve garantire una durata ragionevole, ma senza creare automatismi sanzionatori né disincentivi operativi.
Tuttavia, come osserva la Corte, resta cruciale il coordinamento tra esigenze di rapidità e garanzie di effettività, specie in contesti – come quelli delle bonifiche ambientali – dove entrano in gioco interessi pubblici e privati che trascendono la mera procedura concorsuale.
In definitiva, non basta il dato cronologico: occorre sempre valutare il caso concreto, bilanciando la durata della procedura con la sua complessità, senza cadere né nell’eccesso di automatismi risarcitori, né nell’abbandono della tutela effettiva per chi, come i creditori, patisce realmente ritardi ingiustificabili.
Corte costituzionale sentenza n. 102 del 2025
